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Gomorra – La Serie

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di Valerio Valentini

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Capita poche volte che un autore realizzi due opere di uno stesso genere, e che per due volte consecutive i suoi lavori vengano accolti, da molta parte della critica, come il miglior risultato raggiunto in quel determinato genere. È quello che è successo a Stefano Sollima, regista della serie Romanzo Criminale nel 2008 e ora direttore artistico della serie Gomorra, andata in onda, in dodici episodi, sui canali Sky dal 6 maggio al 10 giugno scorsi, con una media di 700mila spettatori a episodio. E capita altrettanto raramente che un solo autore – Roberto Saviano, nella fattispecie – sappia contribuire a realizzare, sulla base di un medesimo soggetto, tre opere (un romanzo, un film e una fiction) di straordinario successo, trattando di una materia che fino a pochi anni prima era ritenuta un argomento di nicchia. È per questo che Gomorra – La serie merita di essere analizzata e studiata.

Scelte stilistiche e rischio di mitizzazione.

Il dibattito sul rischio della mitizzazione e della possibile emulazione di boss e criminali da parte del pubblico, che oggi accompagna puntualmente qualsiasi film o serie televisiva incentrati su storie di mafia, è un fatto relativamente nuovo. Fino a una decina di anni fa, era solo una ristretta minoranza che, guardando film più o meno recenti (da Scarface a Il Padrino fino a La Piovra), sottolineava questo pericolo, rimanendo perlopiù inascoltata. Oggi non è più così e, tutto sommato, c’è da esserne soddisfatti: è indice di una maggiore maturità dei vari commentatori rispetto al fenomeno della criminalità organizzata e al modo di raccontarlo.

Tuttavia, questo tipo di critica ha raggiunto, mi pare, un livello parossistico, che finisce spesso con l’isterilire la discussione intorno a questo tipo di opere, riducendola alla domanda: l’autore ha saputo demitizzare abbastanza le figure dei boss? Si tratta di un bizzarro corto-circuito: nell’ansia di stabilire se il cattivo di turno è sufficientemente cattivo e la sua cattiveria per nulla desiderabile, si mettono nell’ombra i dettagli della narrazione, che in realtà concorrono in maniera determinante all’effettiva caratterizzazione dei protagonisti dei film di mafia.

È proprio quello che è avvenuto, e sta avvenendo, intorno alla serie Gomorra. Da più parti si è biasimato l’ideatore della fiction, Roberto Saviano, il regista Stefano Sollima e i suoi collaboratori (Francesca Comencini e Claudio Cupellini), per aver indugiato troppo sugli aspetti più cruenti e macabri della realtà della Camorra, col rischio di scadere nel solito “manierismo” del crimine che produce «decine di emuli» (Michele Serra, su Repubblica dell’11 giugno). Ma è soprattutto un’altra la critica rivolta a Gomorra che mi sembra significativa: quella – formulata, tra gli altri, da Marco Demarco sul Corriere della Sera del 5 giugno – di raccontare la realtà di Napoli solo dalla soggettiva dei camorristi, ignorando invece la parte migliore della città e dei suoi abitanti. È significativa, questa critica, perché esprime molto chiaramente l’aspettativa di una larga porzione di pubblico di trovare, nei testi e nei film sulle mafie, una distinzione netta e inequivocabile tra il Bene e il Male (ben più netta e ben più inequivocabile di quanto non sia nella realtà).

In Gomorra – La serie, invece, il Bene non c’è, come controparte che si oppone al Male, perché descrivere quell’opposizione non rientrava negli scopi di Saviano. Il quale intendeva, evidentemente, raccontare la Camorra dal di dentro, immergendo lo spettatore nell’ambiente assurdo e abominevole – eppure vero, esistente – da cui la Camorra nasce e si sviluppa. Il metodo adottato sembra riprodurre, seppur con fini diversissimi, quello in uso presso le gang di criminali e narcos sud-americani, che filmano le proprie imprese, le esecuzioni dei loro rivali, le iniziazioni dei loro affiliati, per poi diffondere quelle immagini e ribadire la propria efferatezza. Una testimonianza dal cuore della criminalità, insomma: un qualcosa di simile a quello che aveva voluto fare, con altri mezzi e altro stile narrativo, Christian Poveda nel suo La Vida Loca, lungometraggio realizzato dal reporter spagnolo durante un suo periodo di frequentazione diretta di una Mara salvadoregna (esperimento che, non casualmente direi, viene raccontato anche in ZeroZeroZero). Quello di Saviano, quindi, è un intento prettamente documentario, che si serve di una narrazione immediata, in presa diretta, e che vuole darci l’impressione di essere dei partecipanti muti e invisibili di una realtà altrimenti inconcepibile per chi non la vive.

A rendere possibile tutto ciò, senza però privare il racconto di una sua efficacia narrativa, contribuisce lo stile magistrale di Stefano Sollima, direttore artistico dell’intera serie e regista di alcuni episodi. Sollima e Saviano sono riusciti a realizzare una fortunata sintesi tra quelli che, fino ad oggi, sono i due modelli principali per raccontare le storie di criminalità. Da un lato c’è il gangster-movie all’italiana, nel quale le vicende criminali vengono descritte dalla prospettiva deviata e (inevitabilmente) deviante dei boss, attraverso un ritmo serrato e una fusione esaltante di musica e immagini: un modello inaugurato da Michele Placido con Romanzo Criminale (2005), e portato ai suoi esiti migliori proprio da Sollima nella serie tratta dal medesimo libro di Giancarlo De Cataldo nel 2008. In quello stesso anno, però, usciva Gomorra di Matteo Garrone, che per la prima volta sceglieva di raccontare la realtà criminale della Camorra attraverso un realismo esasperato che rendeva i vari boss assolutamente repellenti (estremizzando una tendenza che nel romanzo di Saviano era meno marcata).

La serie Gomorra si colloca proprio nel punto di congiunzione tra questi due modelli narrativi e tra le passate esperienze di Sollima e Saviano. Ed è così che questa sorta di richiamo al Neorealismo si coniuga con una tradizione più moderna e internazionale. La lingua dei protagonisti, ad esempio, è un napoletano che rasenterebbe l’incomprensibilità per molti telespettatori (se non fosse per l’attenzione degli attori a scandire alcune determinate parole nelle quali si condensa il senso di intere frasi), ma che fornisce un’imprescindibile coloritura ai dialoghi; discorso analogo per le Vele di Scampia e Secondigliano che, lungi dall’essere semplici fondali, risultano parte viva, indispensabile della narrazione. Contemporaneamente, però, il montaggio di molte scene che tende ad essere frenetico, e i movimenti di camera ricercati (soprattutto durante le scorribande motociclistiche di Gennaro Savastano e dei suoi amici) e per nulla ridotti all’essenziale, concorrono a rendere molto più godibile il racconto. E poi c’è l’uso – assolutamente azzeccato – della musica, che non risulta solo una cornice, ma un vero e proprio contrappunto di molte immagini. Si tratta di un’abilità di cui Sollima aveva dato ampio sfoggio già nella serie Romanzo Criminale (gli affezionati ricorderanno l’uccisione del Terribile sulle note di Tutto il resto è noia, l’agguato al gruppo di neofascisti su Fatti più in là, la retata della polizia su Pazza idea e il dialogo tra il Freddo e Donatella su Lilly di Venditti). In Gomorra questo utilizzo della musica a fini espressionistici è meno compiaciuto; eppure in parte lo si ritrova, ad esempio, nella scelta di creare contrasti tra scene diverse ricorrendo a musiche che variano dal diegetico all’extradiegetico (come nella sequenza della partenza di Salvatore Conte dalla Spagna sulle note del Lacrimosa, o in quelle in cui Gennaro e Ciro cantano canzoni in dialetto napoletano), con risultati davvero apprezzabili.

Di quale Gomorra si parla?

Sin dall’inizio, la serie è stata presentata, da Sky stessa, come «tratta dal romanzo di Roberto Saviano», e la formula è stata riproposta un po’ da tutti. In realtà, però, quello che la serie racconta, oltre a temi generali che riguardano la storia e la natura della Camorra già affrontati nel libro (la faida degli scissionisti a Scampia e Secondigliano, il ruolo tutt’altro che secondario delle donne nella gestione degli affari dei clan, la dimensione finanziaria e imprenditoriale raggiunta dalle organizzazioni criminali), quello che la serie racconta, dicevo, è soprattutto quello che è venuto dopo il libro Gomorra. E con dopo mi riferisco sia alle ricerche condotte da Saviano successivamente all’uscita del romanzo (2006), sia all’evoluzione dei clan camorristici del napoletano negli ultimi cinque o sei anni.

Per quanto riguarda il primo aspetto, la principale fonte documentaria di molti degli episodi descritti nella fiction risultano le dichiarazioni rilasciate a Roberto Saviano da Maurizio Prestieri, boss del Rione Monterosa e braccio destro di Paolo Di Lauro (detto “Ciruzzo ‘o milionario”, e Ciro è il nome del protagonista della fiction, i cui autori si sono spesso divertiti a creare bizzarre coincidenze di nomi, di luoghi, di circostanze tra fatti reali e finzione narrativa). Nel corso dei colloqui con Saviano, pubblicati su Repubblica nel febbraio 2011, Prestieri ripercorse la sua carriera criminale come esponente di spicco dell’Alleanza di Secondigliano prima, e del clan Di Lauro poi. Molti dei dettagli presenti in quei racconti, molti retroscena svelati da Prestieri e fino ad allora ignoti, si ritrovano nella serie Gomorra.

L’iniziazione di Genny Savastano, figlio del boss Pietro e suo erede designato alla guida del clan, costretto ad uccidere un tossico per mostrare di avere le qualità richieste ad un uomo di Camorra, è evidentemente ricalcata su quella di Cosimo Di Lauro, figlio del boss Paolo, sin nei dettagli: Genny, infatti, dapprincipio impreparato, come lo era Cosimo, a rivestire i panni del capo, proprio come Cosimo sbaglia mira e non riesce ad uccidere il suo facile bersaglio. Una figura poco onorevole per entrambi, coperta, in tutti e due i casi, da un silenzio tassativo imposto dal padre dell’iniziato. Anche la villa faraonica di Pietro Savastano, costruita dirimpetto alle Vele, ricorda quella descritta da Maurizio Prestieri come la sua “reggia”, che il boss volle proprio nel centro di Secondigliano, per ribadire il suo ruolo di padrone indiscusso nel suo territorio, di “capo nel recinto”. C’è poi la faida tra i Savastano e i Conte, che ricalca per molti aspetti quella tra i Prestieri/Di Lauro e il clan di Antonio Ruocco; come Paolo Di Lauro, tra l’altro, anche Pietro Savastano decide di inasprire il conflitto col clan rivale dopo che quest’ultimo si rende protagonista di una strage efferata in un bar di Secondigliano, con tanto di mitra e bombe a mano. L’elezione del giovane sindaco di Giugliano, sul quale i Savastano decidono di puntare nonostante non sembri avere alcuna possibilità di vittoria, è molto simile a quella di Alfredo Cicala, eletto sindaco di Melito, contro ogni pronostico, per volere di Prestieri e Di Lauro.

Di tutte queste dinamiche proprie delle organizzazioni camorristiche, è interessante notare come Saviano e Sollima riescano a fornire una spiegazione di rara efficacia attraverso una racconto fluido e coinvolgente. Esempi emblematici di questa fusione di rigoroso intento didascalico e di pathos narrativo, sono le descrizioni dell’allestimento di una nuova piazza di spaccio e del suo funzionamento (non credo che, ad oggi, ne esistano rappresentazioni migliori), o della compravendita dei voti fuori dal seggio elettorale. E la capacità di mostrare le tragedie di Napoli nella loro genuinità, non si restringe alla sola realtà camorristica: si pensi alla vicenda di Don Pietro all’interno di Poggioreale, e soprattutto alla sequenza in cui sua moglie Imma arriva a fargli visita, saltando la sterminata fila di facce stravolte da ore di attesa dinanzi all’entrata del carcere, oppure all’immondizia che in più occasioni compare come un accessorio ormai abituale di banchine e marciapiedi.

Ma, come dicevo, la serie Gomorra intende mostrare anche gli sviluppi più recenti dei clan, su cui si è fatto luce solo negli ultimissimi anni. Innanzitutto l’adozione, da parte della Camorra, di metodi analoghi a quelli usati già da tempo dalla ‘ndrangheta calabrese nella gestione delle trattative con i narcos sudamericani per l’acquisto diretto della cocaina, senza l’intermediazione di altre organizzazioni criminali e a prezzi molto più vantaggiosi.

In secondo luogo, Saviano ha voluto raccontare il radicale ricambio in seno ai clan camorristici dell’hinterland napoletano. Se è vero che tali ricambi avvengono ciclicamente nella storia delle organizzazioni criminali, nelle quali la rottamazione delle classi dirigenti ormai anziane avviene con metodi piuttosto risolutivi, bisogna comunque sottolineare che quello che sta avvenendo in questi ultimi anni è qualcosa che non ha precedenti. I boss più anziani dei clan di Scampia e Secondigliano, almeno quelli sopravvissuti alla faida scissionista di fine anni ’90, sono stati costretti, dal carcere o dalla latitanza, ad un ruolo marginale. I vertici dei clan sono stati così scalati da una generazione di giovani criminali, spesso – ed è questa la novità assoluta – poco più che adolescenti, che hanno deciso, forti della loro presenza attiva sul territorio, di rompere il cordone ombelicale con i vecchi capi, disobbedendo agli ordini e venendo meno anche a quelle regole non scritte che governavano le dinamiche delle organizzazioni. E quando alcuni dei gerarchi più anziani, stanchi di essere messi nell’angolo, hanno tentato di riassumere la guida delle cosche, le nuove leve si sono opposte, e spesso per farlo non hanno esitato a sparare.

Ora, nella serie Gomorra, questa rottura generazionale si evidenzia sin dalla sequenza che apre il primo episodio, in cui il giovane Ciro cerca di spiegare ad Attilio, affiliato cinquantenne del clan Savastano, il funzionamento di Facebook, e subito dopo gli propone una canzone di Franco Ricciardi e Ivan Granatino che Attilio rifiuta come “troppo moderna”. «Sei tu che sei antico» – ribatte Ciro. Questa chiave di lettura resterà valida per tutto il resto del racconto: Don Pietro Savastano incarna un boss affermato ma ritenuto da molti non più infallibile e, approfittando di una faida con un clan rivale e della sua reclusione al 41 bis, i ‘uagliunciell che prima guardavano ai più anziani come a dei capi rispettati, cominceranno a cercare, con sempre più arroganza, con sempre meno lucidità, di rimpiazzare “i vecchi”.

E ovviamente le culture delle due generazioni, separate da non più di vent’anni di differenza, vengono rappresentate nella loro assoluta, irriducibile diversità. Quello di Genny e dei suoi amici è un mondo in cui i valori classici della Camorra vengono in larga parte stravolti: i giovani criminali fanno uso di cocaina – assolutamente vietata ai boss di un tempo – e usano le armi con una disinvoltura eccessiva che tradisce la loro impreparazione, si mostrano poco rispettosi delle divisioni territoriali tra clan e incapaci di giungere a mediazioni vantaggiose per tutti. Sanciscono la loro supremazia rimorchiando le donne dei rivali nelle discoteche, salvo poi rivolgersi alla protezione dei genitori per appianare i conti con i capi-zona che loro hanno offeso. Una generazione di frustrati e mammoni, inadatti alla crudezza della vita che è data loro in sorte, che rimediano a questa loro inettitudine ricorrendo ad una violenza incontrollata e del tutto illogica.

Nessuno si salva?

La Camorra raccontata dal di dentro, dicevamo. Una lunga apnea in un mondo retto da norme assurde e spietate, in cui nessun riscatto sembra pensabile. Anche i valori comunemente ritenuti positivi, come quelli della religione, sono stati distorti: le case dei boss sono piene di crocifissi e immagini sacre, i santini di Padre Pio (santo sempre più amato dalle cosche, tanto da rimpiazzare San Gennaro a Napoli e San Michele nella Locride) sono immancabili nei portafogli dei criminali, e sono anzi usati da loro come distintivi di riconoscimento. C’è addirittura chi entra in chiesa a pregare prima di dare inizio ad una nuova faida. Gli unici sprazzi di umanità, di integrità morale, si mostrano appunto come fugaci apparizioni dietro la divisa di un direttore del carcere incorruttibile o nelle rughe di una madre che fa di tutto, e invano, per impedire a suo figlio di lasciarsi fagocitare dal clan del suo rione.

Eppure sarebbe sbagliato pensare che Gomorra metta in scena un mondo di criminali, di carnefici irredimibili. Piuttosto, quello che la fiction mostra è un ambiente nel quale la scelta della criminalità si offre spesso come unica alternativa: per trovare un lavoro, per reagire a un’ingiustizia, per ricevere l’assegnazione di un appalto. Ma anche, banalmente, per sopravvivere, perché altro non è possibile scegliere. E di questo esercito di reclute assoldate, verrebbe da dire, loro malgrado, la maggior parte è destinata a finire in carcere, o a morire, in un tempo davvero esiguo. Solo per pochissimi privilegiati essere un ragazzo di camorra significa poter conoscere, seppur brevemente, la fama e il potere, la ricchezza e il rispetto di tutti. E così, mentre Genny Savastano può permettersi di arrivare in parata nella piazza del suo quartiere, dove ad accoglierlo trova tutti i suoi amici in atto di venerazione nei suoi confronti, e il cantante neomelodico più in voga del momento che dedica una canzone d’amore alla ragazza su cui il giovane boss vuole far colpo, negli stessi istanti – è una scena a contrasto di particolare bellezza – il suo coetaneo Pasqualino, condannato a dieci anni per una rapina in cui non è riuscito nemmeno a intascare qualcosa, si impicca nella squallida cucina di una cella sovraffollata di Poggioreale.

Un’attenzione particolare è dedicata, dagli autori della serie, agli adolescenti. Immersi sin dalla nascita in una quotidianità atroce, quella delle Vele di Scampia e Secondigliano, di cui non avvertono affatto l’abominio, per loro l’educazione criminale comincia dapprima come un gioco (straziante la sequenza finale del primo episodio, in cui i ragazzini si addestrano a fare le vedette per le piazze di spaccio), poi come un’emulazione dei più grandi, e poi, senza soluzione di continuità, come un’ordinarietà esaltante e naturale al contempo.

Ma è proprio vero che nei ragazzi che decidono di diventare camorristi, questa decisione avvenga in maniera assolutamente inconsapevole? Forse no. Forse, in ognuno di quei ragazzi c’è un istante di disorientamento, di umano, istintivo rigetto di una realtà nauseante. Ce lo rivela lo sguardo perso di Diego, un ragazzino che, proprio nell’ultimo episodio, viene adescato e sottratto alla madre da Genny Savastano con l’intento di farne il suo personalissimo allievo prediletto. Diego si ritrova nel mezzo di una sparatoria all’interno di un teatro, una sparatoria di cui lui non capisce cause e dinamiche: vi assiste inerme e angosciato. È un attimo, in cui Diego non sa letteralmente che fare. Combattere le mafie, per un comunità che fosse convinta di poterle sconfiggere, significa impegnarsi ad essere presenti in quell’attimo, e mostrare a Diego la possibilità, e la convenienza, di una scelta diversa da quella della Camorra.

P.S. Resta da capire come mai la Rai abbia voluto perdere la collaborazione di Roberto Saviano dopo la sua partecipazione a Vieni via con me, e non si sia proposta come produttrice della fiction, (contribuendo invece, negli ultimi anni, alla realizzazione di vari cinepanettoni, riconosciuti tra l’altro come film di interesse culturale dal Mibac). Il caso ha voluto che proprio mentre andavano in onda gli ultimi episodi di Gomorra, Matteo Renzi fosse impegnato in un viaggio diplomatico in Cina, con lo scopo dichiarato di voler promuovere il made in Italy. Nelle stesse ore, gli scandali sull’Expo rendevano molte società asiatiche piuttosto scettiche sull’opportunità di investire i loro capitali in Italia, e si apprendeva che, forse anche a seguito degli esiti dell’inchiesta sul MOSE, la candidatura di Cortina e Venezia per i mondiali di sci del 2019 veniva bocciata a vantaggio di Åre (Svezia). Non vorrei che la logica berlusconiana della criminalizzazione di libri e film sulla mafia, che farebbero al nostro Paese una cattiva pubblicità all’estero, si sia affermata, come molti altri elementi del berlusconismo, in una parte di classe dirigente ben più larga di quella tecnicamente berlusconiana. Ci sono tanti modi per “strozzare” chi scrive libri e realizza serie televisive sulle mafie. Uno di questi è cercare di ridurli, tacitamente, al silenzio, o anche solo alla marginalità.



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